Una riflessione teologica e pastorale sull’ira che si nasconde dietro la cortesia professionale
Introduzione: Quando l’ira indossa il tailleur
Negli ambienti professionali moderni – soprattutto nel cosiddetto “mondo corporate” – l’ira non urla più. Non si manifesta più con grida, porte sbattute o pugni sul tavolo – almeno non apertamente. Oggi assume forme più sottili, raffinate e perciò anche più pericolose: email fredde con formule come “presa visione”, silenzi punitivi, esclusione di persone dalle riunioni, ritardi intenzionali nelle risposte o il famigerato ghosting lavorativo – quando qualcuno interrompe ogni comunicazione, come se l’altra persona fosse scomparsa, senza spiegazioni né saluti.
E tutto ciò accade tra adulti, professionisti, persone presumibilmente ben educate – forse persino tra chi va a Messa la domenica. Ma dietro questa facciata cortese, dietro formule come “Cordiali saluti” o “Resto in attesa di un gentile riscontro”, si cela qualcosa di più oscuro: la rabbia passivo-aggressiva.
La domanda che dobbiamo porci è semplice, ma profonda:
Cosa dice la nostra fede cattolica su questa forma moderna e mascherata del peccato capitale dell’ira?
I. L’ira: un peccato dai mille volti
Nella tradizione cattolica, l’ira è uno dei sette peccati capitali – quei peccati che, una volta radicati nel cuore, generano molti altri mali. Ma, contrariamente all’immaginario comune, l’ira non si manifesta sempre in forme esplicite e violente.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2302) insegna:
“L’ira è il desiderio di vendetta. Il desiderio di vendetta per fare del male a chi deve essere punito è illecito; è gravemente contrario alla carità.”
Ma cosa accade quando questo desiderio di vendetta si veste di buone maniere? Quando non si grida, ma si ignora? Quando si scrive a tutto il team tranne a una persona specifica? Quando si tace non per pace, ma per punizione?
Qui nasce la rabbia passivo-aggressiva: una forma raffinata di vendetta e disprezzo, che non esplode, ma ferisce; che non rompe i piatti, ma le relazioni.
II. Il “ghosting” professionale: la nuova punizione sociale
Il termine ghosting viene dall’inglese e significa “diventare un fantasma”. Nel contesto professionale indica l’atto deliberato di ignorare: nessuna risposta alle email, nessuna comunicazione, silenzio prolungato e inatteso. È una forma di punizione sociale. Dal punto di vista cristiano, è profondamente incompatibile con la carità e la giustizia.
San Paolo scrive agli Efesini:
“Adiratevi, ma non peccate; il sole non tramonti sopra la vostra ira, e non date occasione al diavolo.”
(Efesini 4,26-27)
L’apostolo ci invita non solo a non covare rancore, ma a non conservare l’ira. Il ghosting professionale fa proprio questo: lasciare l’ira covare nel silenzio, come arma nascosta.
Il problema spirituale del ghosting professionale
- Nega la dignità dell’altro, trattandolo come irrilevante.
- Chiude la porta al dialogo, impedendo ogni possibilità di riconciliazione.
- Avvelena il clima lavorativo, generando sfiducia e insicurezza.
- Nutre superbia e autosufficienza, ponendosi al di sopra dell’altro.
III. Linguaggio freddo e cuore tiepido
L’altra faccia della medaglia è quella del linguaggio professionale passivo-aggressivo, dove tutto sembra corretto, ma nulla è sincero. Frasi tipiche sono:
- “Come da accordi, l’attività è ora sotto la sua responsabilità…”
- “Comprendiamo i suoi limiti, ma ciò non è accettabile.”
- “La ringrazio fin d’ora per il sollecito riscontro.” (pur sapendo che non si vuole riceverne) …
… tutte armi retoriche. È una forma sottile di violenza verbale. Dal punto di vista spirituale, contrasta con la verità nella carità.
Il Signore ci dice nel Vangelo:
“Sia invece il vostro parlare: ‘sì, sì’, ‘no, no’; il di più viene dal maligno.”
(Matteo 5,37)
Non si tratta solo di onestà letterale. Gesù ci invita alla trasparenza interiore, a parole che non siano maschere o trabocchetti morali. Una mail piena di cortesia apparente può nascondere un cuore chiuso – incapace di dire: “Mi hai ferito” oppure “Dobbiamo chiarirci”. Anche questo è una forma di menzogna.
IV. Rilevanza teologica: perché è importante?
La teologia morale ci insegna che si pecca non solo per azione, ma anche per omissione della carità. La rabbia passivo-aggressiva è peccaminosa non solo per ciò che fa, ma per ciò che impedisce:
- Impedisce il perdono.
- Impedisce la comunione.
- Impedisce la crescita di relazioni autentiche, fondate sulla verità e sull’amore.
Inoltre, secondo un’antropologia cristiana, questa attitudine nega ciò che l’uomo è per natura: essere di relazione, creato per l’incontro, il dialogo e la comunione – non per l’isolamento, il controllo emotivo o il disprezzo dissimulato.
V. Guida pratica teologico-pastorale: cammini di guarigione
1. Esame di coscienza professionale
Poniti queste domande:
- Ignoro deliberatamente colleghi per rancore?
- Uso il silenzio come punizione?
- Manipolo il linguaggio per colpire indirettamente?
- Mi sono mai scusato per freddezza o mancata risposta?
2. Correzione fraterna anziché punizione silenziosa
Il Vangelo ci insegna:
“Se il tuo fratello commette una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolta, avrai guadagnato il tuo fratello.”
(Matteo 18,15)
Il cammino cristiano non è: “mi chiudo e ti ignoro”, ma: confronto umile e veritiero.
3. Riformare il linguaggio professionale
Adotta un linguaggio che sia:
- Chiaro e diretto,
- Capace di esprimere i conflitti con rispetto,
- Aperto al dialogo e non bloccante,
- Coerente con la tua fede – anche in ambito lavorativo.
4. Offrire a Dio il proprio disagio
Se ti senti irritato sul lavoro, non reprimere né mascherare la rabbia. Presentala a Dio nella preghiera:
“Signore, sono arrabbiato. Sono ferito. Non voglio ferire gli altri. Trasforma la mia ira in saggezza e compassione.”
L’ira non va repressa né ignorata: va redenta.
5. Credere nella forza del perdono
Perdonare sul lavoro è difficile – ma liberante. Non accade tutto in un giorno. Ma comincia con una scelta:
“Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno.”
(Luca 23,34)
Conclusione: Evangelizzare anche tra le scrivanie
In ufficio, nelle email, nelle riunioni – puoi essere discepolo di Cristo. Questo significa rifiutare lo stile passivo-aggressivo, anche se è considerato “professionale”, “moderno” o “strategico”.
Essere cristiano sul lavoro significa scegliere la comunione al posto del controllo, la verità al posto del sarcasmo, la misericordia al posto della vendetta nascosta.
Se Cristo abita nel tuo cuore, deve abitare anche nell’oggetto delle tue email, nei tuoi silenzi, nel modo in cui gestisci i conflitti. Perché la santità non si realizza solo in chiesa – si manifesta anche su Outlook, Slack, Teams … e in quella email che stai per inviare con un “Cordiali saluti” che in realtà dice: “Ti punisco con la mia indifferenza.”
“Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.” (Matteo 5,5)
La mitezza cristiana non è debolezza. È la forza dell’amore che rifiuta di ferire – anche quando è ferito. E questo… cambia davvero il mondo. Anche il mondo dell’ufficio.